Comunità terapeutica |
Al modello che nel primo '800 aveva caratterizzato la progettazione dei manicomi, in particolare con il panopticon di J. Bentham che prevedeva, attraverso un sistema di celle a raggiera che si dipartivano da una torre centrale, la possibilità di un controllo visivo assoluto restando in un'unica posizione, nella seconda parte del secolo si aggiunse, senza però sostituirsi del tutto al precedente, il modello di manicomio a villaggio disseminato di cottages, che prese spunto dalla storica esperienza di Gheel (dove nel vii secolo era stato fondato un reliquiario, presso cui i folli usavano recarsi in pellegrinaggio per essere miracolosamente guariti. Per compiere i lunghi rituali di devozione, i folli cominciarono a trattenersi presso le famiglie di contadini del villaggio. Gradatamente andò perdendosi il carattere religioso della permanenza dei folli a Gheel, e rimase invece l'esperienza secolare di convivenza con gli alienati, del loro coinvolgimento nei lavori di casa, nei lavori dei campi, nell'accu-dimento dei bambini, che gli abitanti del villaggio belga avevano maturato). Tale esperienza, che si basava sull'ergoterapia svolta prevalentemente all'aria aperta e in ampi spazi, pur avendo in sé evidenti ambiguità, quali la segregazione in luoghi lontani dai centri abitati e la colonizzazione dei folli, avrebbe però costituito la prefigurazione di quei modelli comunitari che in futuro avrebbero preso piede in Europa. L'open door proposto da J. Conolly (1856), generalmente noto come modello scozzese no restraint, permise un ulteriore affinamento delle possibilità socioriabilitative che continuarono però a coesistere con la segregazione istituzionale. Il sistema di affidamento eterofamiliare di pazienti tranquilli, attraverso la pratica dei sussidi alle famiglie affidatarie, anch'esso derivato dall'esperienza di Gheel, costituì un'ulteriore fase di sviluppo della progettazione di un modello che andò allontanandosi dal concetto di universo concentrazionario «per tutta la vita» (lifetime) e che ebbe in sé alcune delle potenzialità relazionali che furono ampiamente sviluppate nelle successive esperienze comunitarie. Il modello della comunità terapeutica propriamente detta nacque e si sviluppò, nel corso del secondo conflitto mondiale e negli anni immediatamente successivi, da due radici apparentemente autonome, una inglese e una francese, ma nel contesto di un comune clima culturale: l'impegno civile per battere il nazifascismo da un lato, e la diffusione delle concezioni della psicoanalisi e della psichiatria fenomenologica dall'altro. Alcuni ufficiali medici, M. Foulkes, il direttore, J. Rickman, il suo allievo W. Bion e, successivamente, T. Main, che avevano come principale riferimento tecnico-culturale la psicoanalisi, diedero origine presso lo Hollymoor Hospital di Northf ield a una storica esperienza comunitaria, che Main (1977) definì per primo «comunità terapeutica». Bion, in particolare, affrontò una seria situazione di indisciplina e disordine all'interno del suo reparto dell'ospedale militare, evitando di ricorrere ad atti punitivi e scommettendo sulla possibile assunzione di responsabilità da parte dei pazienti. La rinuncia al ricorso all'autorità di medico e di ufficiale fu considerata inammissibile e gli valse l'allontanamento dall'ospedale militare. L'«esperimento Northfield» fu però successivamente ripreso da Foulkes (1964), che evidenziò il valore del piccolo gruppo terapeutico, i cui confini furono definiti una sorta di membrana a permeabilità variabile, nell'aiutare il singolo paziente a intraprendere percorsi elaborativi. Main, che proseguì le sue esperienze al Cassel Hospital, ebbe modo di sottolineare ulteriormente che tanto il medico quanto i pazienti facevano parte della stessa comunità e che sarebbe stato più facile ricorrere all'autorità piuttosto che sostenere, pur fra mille difficoltà, la spontaneità e l'autonomizzazione dei pazienti. M. Jones, in seguito allo sfollamento bellico, diede vita a un'esperienza comunitaria a Mill Hill, in modo indipendente dai suoi colleghi psicoanalisti. Quest'ultima esperienza si fondò soprattutto sulle riunioni generali, gli incontri di staff e la gestione comunitaria della crisi e continuò poi fino al 1959 allo Henderson Hospital (Jones, 1968). Qui l'antropologo americano R. Rapoport portò a termine la prima ricerca sulle dinamiche sociali all'interno della comunità terapeutica. Nel suo studio (Rapoport, 1960) venne evidenziata un'alternanza di intensità partecipativa a cui faceva da contrappunto una maggiore o minore significatività dei ruoli di potere. Attraverso un questionario, egli evidenziò quelli che erano i valori comunitari prevalenti: «democraticismo», la partecipazione collettiva alla costruzione decisionale; «permissivismo», il limite della tolleranza; «comunitarismo», stile confidenziale, comunicazione diretta, condivisione dello stesso tempo e dello stesso spazio; «confronto con la realtà». Molti autori hanno sottolineato l'importanza dello studio di Rapoport in rapporto ad alcune domande ancora attuali circa, per esempio, la ricerca o meno di percorsi terapeutici differenziati e calibrati sui bisogni e la patologia del singolo paziente e la presenza o meno di un leader carismatico. La fine degli anni '40 aveva visto in Francia l'inizio delle esperienze di psicoterapia istituzionale con G. Daumézon, L. Le Guillant, F. Tosquelles, L. Bonnafé, che avevano tentato di coniugare i riferimenti marxisti con la teoria psicoanalitica. Nel 1954 grazie a S. Lebovici, R. Diatkine, P. Paumelle e P.-C. Racamier era cominciata un'esperienza pilota di settore presso il XIII arrondissement di Parigi che nel 1960 era stata estesa a tutto il territorio nazionale. La nuova assistenza psichiatrica prevedeva che, pur restando fermo il mantenimento degli spazi manicomiali, si creasse un'articolazione della cura in luoghi e tempi diversi, in relazione alle esigenze terapeutiche del paziente, seguendo il principio della continuità terapeutica, prima, durante e dopo il ricovero psichiatrico. La psicoanalisi senza divano allora propugnata da Racamier (1972) ebbe modo di affinarsi in esperienze successive, quali l'ospedale di giorno La Velotte, e si costituì come il principale contributo francese al concetto di comunità terapeutica moderna. Dal 1960 in poi si è assistito a una notevole diffusione delle comunità terapeutiche che, pur prendendo spunto dalle prime esperienze inglesi e francesi, si sono sviluppate in modo estremamente variegato. Accanto ai filoni delle comunità terapeutiche classicamente intese, più in rapporto, a seconda dei casi, con la tradizione psicoanalitica o con quella socioterapica, si andavano diffondendo altre comunità, caratterizzate soprattutto dal fatto che in esse tematiche come quelle della negazione dei ruoli, della responsabilizzazione del paziente, della contestazione dell'autorità, dell'interpretazione della psicosi come fenomeno relativo alle dinamiche interne al gruppo piuttosto che a caratteristiche dell'individuo, già presenti se non altro come aspirazioni o linee di tendenza nelle comunità terapeutiche classiche e poi per lo più cadute in ombra, venivano riprese con enfasi e radicalità particolari. Ricordiamo Villa 21, un padiglione di un ospedale psichiatrico londinese, lo Shenley Hospital, con D. Cooper, e a Kingsley Hall l'esperienza comunitaria con R. Laing, A. Esterson, J. Berke e M. Schatzman; in Francia si segnala l'esperienza della clinica La Borde a Court Cheverny, iniziata da J. Oury, un allievo di Tosquelles, nel 1953. L'Italia giunge all'appuntamento con la comunità terapeutica con notevole ritardo. L'esperienza promossa da F. Basaglia a Gorizia a partire dal 1961 e proseguita poi a Parma e Trieste, pur partendo dai principi informatori delle esperienze comunitarie, che prevedevano nuovi equilibri di potere tra personale, medici e ospiti, se ne allontana negando loro la capacità di rappresentare un modello effettivamente antagonista nella psichiatria e denunciandone l'immancabile tendenza a trasformarsi restando tuttavia istituzioni totali. Discostandosi dalle posizioni basagliane, D. De Martis e la scuola pavese fanno riferimento all'esperienza del XIII arrondissement, mentre E. Bal-duzzi conduce a Varese la prima esperienza di psichiatria di settore dal 1964 al 1968, giovandosi della consulenza di due psicoanalisti, E. Gaburri e G. De Simone. Le comunità lombarde Omega e Villa Serena, entrambe ispirate e dirette da D. Napoletani, in quegli stessi anni, fanno riferimento tanto ai principi psicoanalitici, quanto ai principi socioterapici di Jones. Le prime comunità terapeutiche in Italia hanno uno sviluppo e una distribuzione territoriale irregolare ed eterogenea. Questo dato, se da un lato evidenzia la mancanza di un saldo filo conduttore e di un progetto tecnico univoco, dall'altro permette il proliferare di esperienze con caratteristiche e organizzazioni variamente differenziate, contribuendo ad arricchire la possibile offerta delle risposte terapeutiche e assistenziali in alternativa agli ospedali psichiatrici. Non si tratta soltanto di meri luoghi fisici in cui vengono più o meno transitivamente erogate cura e assistenza, ma di luoghi mentali intesi come rappresentazione delle capacità di accoglimento di emozioni e affetti dell'universo frammentato degli ospiti attraverso il lavoro d'equipe, nonché di spazi di elaborazione gruppale delle esperienze di vita comunitaria. Uno straordinario valore viene conferito dalla comunità alla condivisione della quotidianità tra pazienti e operatori come possibilità autentica di trovare risposte possibili ai bisogni emergenti, attraverso una continua mediazione fra mondo interno e realtà esterna. Per tutti gli anni '80 si assiste, sempre in modo irregolare, in alcuni casi alla crescita e al consolidamento di quelle prime esperienze comunitarie, in altri a un inesorabile declino. A partire dalla seconda metà degli anni '90, dopo la definitiva chiusura degli ospedali psichiatrici, si verifica un ulteriore incremento e una maggiore diffusione della composita offerta comunitaria. Quest'ultimo periodo vede la creazione di numerose comunità ad hoc per pazienti precedentemente ricoverati in ospedale psichiatrico, diverse dal punto di vista della loro definizione sociosanitaria, ma anche della loro specifica operatività e della singola progettualità. La progettazione di tali strutture non sembra significativamente ispirarsi né a modelli comunitari realizzati nel corso degli anni in altri paesi, né tanto meno a comunità private già esistenti e operative nel territorio nazionale. Esigenze di ordine politico ed economico, oltre che assistenziale, sollecitano la creazione di comunità in cui ospitare pazienti portatori di una patologia psichiatrica cronicizzata e, pertanto, bisognosi di un trattamento residenziale protratto. La chiusura dei manicomi, quindi, costringe a fare i conti con la gestione e l'amministrazione dei trattamenti a decorso prolungato, che precedentemente erano stati espulsi dal circuito sanitario e relegati all'interno degli ospedali psichiatrici. L'eterogeneità delle esperienze che in questa fase si richiamano al modello di comunità terapeutica può rappresentare una risorsa e non solo una difficoltà. Questa tipologia di pazienti lungamente istituzionalizzati con il suo impatto dirompente mette in crisi i fragili equilibri su cui erano andati costruendosi i servizi di salute mentale, costringendo tecnici e amministratori a ripensare l'intera rete di offerte socioassistenziali. La comunità terapeutica, pertanto, cessa di essere un luogo sostanzialmente separato dal contesto, con finalità conchiuse nella stessa esperienza comunitaria, di breve o lunga durata che fosse, e diventa il tassello di un mosaico complesso che prevede la cura-assistenza attraverso una rete di servizi contigui e integrati che vanno dai centri territoriali di salute mentale ai servizi psichiatrici di diagnosi e cura, dai centri diurni alle cooperative di lavoro e alle imprese sociali, dalle comunità alloggio alle residenze sanitarie assistite, agli appartamenti protetti. Andando oltre le primitive aspettative magico-redentrici, la comunità terapeutica assume il senso di un segmento esistenziale protetto che si raccorda con le altre risorse territoriali. Spazi, modalità organizzative e tecnico-operative divengono articolazioni di un sistema organizzativo più ampio. Anche la dicotomia pubblico-privato, che tanta parte aveva avuto nel dibattito degli anni precedenti si stempera in una possibile collaborazione su progetti terapeutici condivisi. Il discorso sulle nuove realtà comunitarie, come oggi le intendiamo in Italia, si dimensiona su una serie di parametri generali. 1) L'ampiezza degli spazi di cura, la loro qualità e il numero di ospiti. Se ai tempi del manicomio si discuteva con accanimento su strutture che contenessero 300, 600, 1000 o 2000 pazienti, oggi il dibattito verte sui 10, 20, 30, 40 posti letto. Le caratteristiche strutturali dei luoghi deputati alla residen-zialità psichiatrica devono fare riferimento a parametri qualitativi di buon livello e in ogni caso rigorosamente fissati per ottenere l'accreditamento presso il Servizio sanitario nazionale. Si sottolinea che lo spazio abitato non deve essere rigidamente predeterminato, deve invece essere il più possibile costruito e inventato dagli ospiti, in modo tale da permettere gli investimenti affettivi significativi relativi all'ambiente interno. 2) Il rapporto tra dimensione psicoterapeutica e dimensione riabilitativa. È assolutamente necessario individuare i giusti equilibri tra il rapporto individuale e quello di gruppo, evitando fughe difensive tanto nell'intimità quanto nella socialità. Sarebbe quindi opportuno navigare tra la Scilla della dimensione terapeutica, che ha come fulcro la sofferenza individuale e gruppale, e la Cariddi della dimensione riabilitativa, che consiste nel mettere a confronto la comunità terapeutica e i suoi ospiti con l'esterno, con un territorio pieno di contraddizioni, eppure vitale. In quest'ottica vale la pena soffermarsi sul grado di protezione dell'esperienza comunitaria, evitando l'eccesso di esposizione e, al tempo stesso, la possibilità di un altrettanto eccessivo e sterile autocentramento. 3) Le aporie libertà / rispetto delle regole e omologazione/anticonformismo. Il dilemma tra la libertà e il rispetto delle regole si pone soltanto all'interno di una struttura rigida, conformista, non in grado di procedere a duttili interpretazioni delle regole, mai storicamente immutabili e sempre soggette alla contrattazione dialogica. Se in alcune fasi può essere necessario rispettare gli aspetti regressivi della sofferenza, facendo della comunità una residenza emotiva e mettendo in atto una costante capacità di elaborazione del controtransfert istituzionale, evitando in tal modo l'imposizione rigida e automatica di regole di comportamento (che necessariamente devono essere presenti ed esplicite per ritmare la convivenza), in altre fasi può essere necessario assumere una posizione superegoica vicariante che aiuti l'ospite a sentirsi contenuto attraverso la strutturazione di confini e limitazioni. Se alcuni aspetti di autonomia e originalità vanno non solo rispettati, ma promossi, bisognerebbe al contempo evitare la sindrome della riserva indiana, per cui i pazienti potrebbero avere la sensazione di vivere in un ghetto neanche tanto dorato, in cui è possibile strutturare un mondo parallelo rispetto a quello reale, ma attraversato da evidenti processi di esclusione. I principali fattori che rendono oggi necessaria una forte focalizzazione teorico-clinica sulle comunità terapeutiche sembrano essere: a) le strutture residenziali psichiatriche accolgono una popolazione con aspetti di notevole gravità clinica e di impegnative necessità assistenziali rispetto alla popolazione complessivamente assistita dai dipartimenti di salute mentale; b) il costo economico dell'assistenza erogata, sia per il suo carattere intensivo (elevato rapporto operatori/pazienti) che per la lunga durata della permanenza degli ospiti in queste strutture, è significativamente elevato; c) il confronto con situazioni gravi comporta per gli operatori un'esposizione affettiva e un carico emozionale intensi e gravosi che possono concorrere a demotivarli fino alla comparsa di fenomeni di bum out, che possono fare «ammalare» le realtà comunitarie se non si mettono in atto dispositivi di salvaguardia, quali per esempio la supervisione dell'equipe curante; d) il rapporto tra le strutture accreditate dal Servizio sanitario nazionale, anche quando sono gestite a diverso titolo privatamente, e i dipartimenti di salute mentale, a cui istituzionalmente è demandato il compito di controllo e verifica delle strutture stesse e della loro operatività, è argomento ancora controverso per quanto riguarda le regole e gli strumenti, ma va definito e praticato; e) si rende necessario un costante aggiornamento professionale che tenga conto della complessità delle interazioni emotivo-affettive tra gli operatori e gli ospiti delle comunità, di un approccio interdisciplinare allargato ad ambiti diversi, delle competenze in merito alla valutazione del trattamento adottato e, infine, dell'apprendimento di tecniche riabilitative scientificamente validate. La formazione professionale continua degli operatori, il tesaurizzare le esperienze pregresse, la focalizzazione teorico-clinica, ma anche un'attenta allocazione delle risorse economiche possono favorire esperienze istituzionali all'interno della complessa rete dei servizi di salute mentale, riducendo i rischi di istituzionalizzazione e di cronicizzazione, insiti anche nelle più sofisticate pratiche psichiatriche. COSIMO SCHINAIA |